14 novembre 2005

Il Dio dei Motori - Michele Serra

Non so se l'oltranzismo narrativo di Alessandro Baricco costituisca un "caso". Se, cioè, ostinarsi a scrivere romanzi come se ci fossero ancora storie potenti, storie esemplari da raccontare, sia uno scandalo, o un anacronismo, o un ammicco al pubblico, o piuttosto pura presunzione - una specie di titanismo e/o divismo dello scrittore, della scrittura. Mi capita però, da lettore, di cadere per intero, e volentieri, in quel gioco, e dunque di leggere da capo a fondo i come se di Baricco, cioè le sue storie (anche quelle inverosimili, soprattutto quelle inverosimili) dimenticando per parecchie pagine consecutive di interrogarmi sulla fenomenologia di Baricco. Cioè sul suo mimetismo stilistico (qui, in questo ultimo romanzo, si contano perlomeno tre baricchi differenti a seconda dei diversi io narranti), sul suo autocompiacimento letterario, sulle frequenti incursioni nel sublime e nel meravigliato, sull'immancabile affastellarsi di quasi tutti gli ingredienti del Romanzo Classico, la vita la morte il sesso il sangue l'amore la guerra la Storia. E d'altra parte, mica gliene possiamo fare una colpa, a Baricco, se il suo risaputo e quasi maniacale culto dello Scrittore genera, alla fine, quasi sempre libri che dopo essere stati scritti vengono addirittura letti, con godimento variabile a seconda che il Mito trattato (questa volta il mito dell'automobile) incontri più o meno direttamente le corde del lettore. Questa storia (Fandango, pagg. 283, euro 15, bellissima copertina di Gianluigi Toccafondo) evidentemente mi ha catturato anche perché amo intensamente l'epopea filante e rumorosa dell'automobile, e rimpiango, senza averlo conosciuto, lo stupore novecentesco e futurista per le nuove giustezze meccaniche che sconvolsero gli umani d'Occidente più o meno cento anni fa. Le prime pagine del libro (1903, rievocazione del raid automobilistico Parigi-Madrid, interrotto dalle autorità francesi per eccesso di incidenti) sono, da questo punto di vista, un incantevole cinemascope sull'irruzione del Moderno nel mondo contadino, sul trauma frastornante della velocità che fende e viola i campi, e strappa gli uomini al loro tempo e al loro ritmo per consegnarli al sogno meccanico. Di qui in poi, a parte una puntigliosa (e lunga) parentesi sulla rotta di Caporetto, intensa ma verbosa digressione veristico-morale sul vergognoso pandemonio della guerra, il libro è tutto un susseguirsi di traiettorie e platani, tornanti e pistoni, carrozzerie e circuiti, incidenti e rettilinei, fino al pre-finale ambientato durante una delle epiche Mille Miglia del dopoguerra. Dentro questa atmosfera, di per sé mitologica, la storia è la storia di Ultimo Parri, figlio di un contadino piemontese visionario che apre la prima officina meccanica per auto quando ancora le auto non ci sono. Ultimo possiede una specie di shining (l'"ombra d'oro") che lo fa vibrare all'unisono con la misteriosa meccanica del secolo incipiente, e insieme a quella con l'ancor più misteriosa meccanica delle donne (donne e motori, eccetera). Brutto ma seduttore, malaticcio ma quasi invulnerabile, l'eroe coltiva e infine realizza un progetto squisitamente letterario (dunque molto baricchiano), e cioè costruire un circuito che rappresenti fedelmente la sua vita, un circuito-romanzo che disegni, curva dopo curva, le accelerazioni e le cadute, gli amori e la paure, le esaltazioni e le pause di riflessione. Parecchi anni dopo la morte di Ultimo sarà una ricchissima contessa russa, suo antico amore negli anni Venti, a percorrere in automobile quel circuito dopo averlo lungamente cercato, in un memorabile finalone (cinematografico e strappa-Oscar) che sarebbe una strepitosa prova d'attrice per una Katharine Hepburn rediviva. Da applausi, lo giuro, sempre che uno, nel frattempo, non abbia voluto sottilizzare, come è suo diritto, sull'idea di ficcare una contessa russa nel cast di un romanzo scritto dopo la fine del romanzo (anche non russo) e perfino dopo la fine del dibattito sulla fine del romanzo. Ma se invece, come pare accada, il lettore è arrivato docilmente fin lì, infischiandosene, insieme a Baricco, dell'evidente megalomania del soggetto e della sceneggiatura, e anzi godendo delle continue e quasi proterve licenze che l'autore si prende nei confronti del basso profilo, vorrà pur dire qualcosa. Vorrà dire, per esempio, che perfino una mitologia saccheggiata come quella dell'automobilismo eroico (quello con i baffi a manubrio, quello della Targa Florio e delle scie di polvere, quello positivista e temerario) può fare da innesco alla scrittura e alla lettura, se solo si decide di fare un passo indietro rispetto a quell'atteggiamento di annoiata saturazione che magari è una necessità imposta dall'epoca, ma pure, forse, è una posa, è una moda. (Bisogna mettere a tacere, leggendo libri come questo, qualcosa che assomiglia molto da vicino al cinismo, quel troppo aver letto, troppo avere visto, che imbolsisce i pensieri e lo sguardo, ci rende tanto più intelligenti ma anche meno creduli e meno reattivi, e in fin dei conti meno vivi). In questo senso Baricco, che gode una fama di scrittore iper-professionale, abile e magari furbo, è invece, mi sembra, uno scrittore programmaticamente "ingenuo", che riesce a coinvolgere nella sua ingenuità (abilmente, iper-professionalmente) un bel manipolo di lettori. Disposti, come lui, ad applaudire un'anziana contessa russa che sfreccia su una Jaguar, nel 1969, su un circuito inglese in disuso, restaurato come un'opera d'arte, descritto come una città Maya riemersa dalle paludi nonostante sia un banale aeroporto inglese della Seconda guerra mondiale: in uno dei capitoli più tromboneschi, e più coinvolgenti, che abbia mai letto negli ultimi anni. E comunque, a proposito di iperboli e di sovraccarichi narrativi: chi ha visto per esempio il celebratissimo The Aviator di Scorsese, film gonfio di retorica novecentista fino a sfiorare il ridicolo, sappia che Questa storia è un ben più credibile e misurato omaggio al pionierismo motoristico e all'azzardo vitalistico dei nostri avi. E questo ci suggerisce, per esempio, che l'Italia non sarebbe certo uno scenario meno probabile, rispetto all'America, per raccontare il transito eccitante e anche funesto dalle vacche ai pistoni, dalla prateria alla metallurgia, anche se in pratica ci ha provato quasi solo Bertolucci. E probabilmente, dunque, ciò che manca ai nostri narratori, e impigrisce cinema e letteratura, è anche, oppure è proprio, quella beata ingenuità "professionale" che abbonda oltreoceano, e produce la fertile illusione che con gli stessi ingredienti di sempre - vita morte sesso sangue amore guerra Storia, uffa… - si possano fabbricare sempre nuove storie, oppure raccogliere sempre nuovi pubblici attorno alle stesse vecchie storie. Delle quali, sia ben chiaro, potremmo anche fare a meno, naturalmente, considerando già ampiamente archiviata la lunghissima epoca dei miti, e dei racconti esemplari. Giudicando stucchevole e stra-prevedibile l'indugio compiaciuto di uno scrittore italiano del 2005 sui tornanti terrosi delle Madonie, o lungo un corpo femminile descritto come un riassunto perfetto di traiettorie, esso stesso un circuito da indovinare alla guida del proprio sguardo. Resta il fatto che il nuovo Baricco è nuovamente assestato esattamente a cavalcioni dell'epopea (e della prosopopea) romanzesca, libera scelta per liberi lettori, scommessa ostinata, ossessionata, sulla possibile meraviglia che la scrittura può far scaturire anche dai materiali consumatissimi che arredano la nostra post-modernità. Leggendolo, spesso si sente la fatica smisurata dello scrivere, si inciampa nel retorico, si dubita degli eccessi, si arretra di fronte a certe sonate stentoree. Ma soprattutto, più di tutto, ci si fida del disegno, ci si compromette con l'illusione del racconto, si è complici, alla fine, del libro, si è ingenui insieme al libro, certe volte si fa "ooooh" e si applaude. E per un libro, è tanto.
Michele Serra
La Repubblica, 11 novembre 2005